L’America che sogno io

Impressioni di un viaggio affascinante che prende il via dal Messico e si conclude a Panama. Con percorsi mistici che attraversano luoghi ricchi di storia antica tra siti Maya e Aztechi.

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Seduti intorno a un piatto di ‘frigoles’ e una bistecca messicana ascoltiamo il ragazzo che parla della situazione del Chiapas. Solo due giorni prima abbiamo ritirato le moto nel porto di Vera Cruz, e ora eccoci qui nel territorio salito alla ribalta internazionale per la vicenda del fronte zapatista.

L’aria che tira non è delle migliori: a 80 km da San Cristobal si incontrano i primi posti di blocco militari dove i controlli sono ossessivi, poi a San Cristobal la presenza dei turisti allenta la tensione, Frotte di stranieri animano questo centro del sud messicano dove si intersecano le vie per il Guatemala e quelle verso i siti Maya come Palenque e quelli nello Yocatan. La chiesa di Santo Domingo è il centro nevralgico della vita di questo “pueblo”, con le donne indios che vendono prodotti del loro artigianato: poco più in là in una in una tenda sono raccolte le immagini della lotta del fronte zapatista, dove spicca sempre la figura del Comandante Marcos.

La pioggia cade incessante sulle montagne e la selva fittissima: le capanne, senza luce e acqua, testimoniano come qui la vita sia durissima e di fronte a questa realtà si capisce il perché della protesta degli indios. A Palenque tutto cambia: il turismo ha stravolto la pacata vita degli indios, ci sono turisti ovunque, ma la visita al sito Maya è veramente suggestiva. Dal tempio delle iscrizioni alla tomba del re Pakal, artefice dello splendore di questa città, tutto rende l’idea della grandiosità di questa civiltà.

Lasciata Palenque, dove ritorneremo per proseguire per il Guatemala, saliamo verso nord: la nostra meta è Chichén Itzà. Sino a Campeche si respira aria pesante: i controlli militari sono una presenza constante, poi, man mano che si avvicina a Merida, si ha l’impressione di attraversare una regione più ricca, per la vicinanza delle spiagge di Cancun e dei siti archeologici dello Yucatan, anche se amaramente dobbiamo constatare che per molti indios poco è cambiato. Chechen Itazà un luogo suggestivo, ricco di reperti Maya e Azteco. La piramide di Kukulcan, o Castillo, è il fulcro di questo sito: è stata costruita secondo le indicazioni degli astronomi Maya e racchiude il calendario, 20 giorni per 18 mesi, più gli ultimi 5 gradoni, 365 gioni.

Levataccia alle cinque, vita da motociclisti: dopo sette ore siamo di nuovo a Palenque tra stupore dei militari che in tre giorni ci hanno visto passare due volte, una cosa strana per loro, abituati a ritmi più pacati. Poi giù verso il fiume Usumacinta con un impantanamento sulla difficile pista per il sito di Bonampak. Arriviamo a Frontera Corazal, ultimo avamposto messicano abitato da indios guatemaltechi sfuggiti agli squadroni della morte negli anni 80. Dopo la visita alle rovine di Yaxchilàn, ci apprestiamo a imbarcarci per il Guatemala, quando la barca si allontana dalla riva con tutto il suo carico la gente saluta festosamente la nostra partenza, e ci chiediamo cosa pensino di noi queste persone, povere ma dalla dignità infinita. La risalita del fiume dura due ore. Lungo la riva scene di vita che si perdono nella notte dei tempi: alberi secolari, capanne primitive, donne intente a lavare indumenti, uomini dediti alla pesca. Per un momento riusciamo a immergerci in questa atmosfera, poi i militari armati sino al collo riportano tutto alla realtà con i loro meticolosi controlli.

Attracchiamo a Betel, in Guatemala: il rito dello scarico delle moto si ripete tra lo stupore dei locali, in particolare dell’addetto dell’ufficio emigrazione che non sa come giustificare i mezzi visto che qui non esiste dogana. La strada, se cosi si può chiamare, che attraversa il Paten fino a Flores è poco più di una pista, tutta polvere e sassi. Quando giungiamo a Tikal è quasi notte: siamo stanchi, irriconoscibili ma ripagati perché ogni giorno è un susseguirsi di immagini, fotogrammi indelebili di un’esperienza unica.

Tikal è un luogo unico. Piramidi immerse in una foresta impenetrabile popolata da circa 300 specie di animali, suoni che si confondono con i resti imponenti di costruzioni che svettano al di sopra della vegetazione.

Riprendiamo la via verso sud. A Sayxanché traghettiamo l’Usumacinta su un barcone carico di camion, che emanano un puzzo orrendo, un trasferimento che mette a dura prova sia noi che le moto. All’indomani un terribile temporale ci accompagna fino a Coban, e percorriamo 130 chilometri in sei ore.

Il tempo volge al bello e, attraversata Città del Guatemala, giungiamo a Cichicastenango, un paesino arroccato a 2000 metri. Il giovedi e la domenica la quiete del villaggio viene interrotta da uno dei mercati più folcloristici di questo continente: colori e brusii si confondono con l’odore d’incenso di riti tra il cristiano e il pagano. Proseguiamo verso Panajachel, sul lago Atitlà, acque turchesi sovrastate da tre vulcani: ancora fuoristrada, paesi avvolti nella polvere dove la vita è scandita dal suono delle campagne in stile rigorosamente coloniale. Ad Antigua Guatemala ci sono parecchie testimonianze di questo stile, anche se la maggior parte dei suoi monumenti sono stati distrutti dal terremoto del 1976.

Chiquimula, al confine con l’Honduras, è una frontiera che da più l’idea di un avamposto. I doganieri dall’aria sospetta puntualmente ci scuciono dollari in quantità: lungo la strada stessa povera vita di sempre, contraddizioni che si notano quando giungiamo al sito Maya di Copàn, dove sembra di rigenerarsi. Copàn è stato riportato alla luce per un 40 per cento: opere straordinarie fanno da cornice a una natura maestosa dove domina sempre la vegetazione. Resto stupito quando all’uscita un ragazzo, leggendo una scritta sulla moto, mi benedice dicendo ‘lago Trasimeno vicino Perugia’, e scopro che ha studiato a due passi dalla mia casa. La pioggia cade incessante, una difficoltà in più, niente in confronto a quelle dalla gente che incontriamo, povera ma estremamente disponibile, mai un problema. Tegucicalpa, la capitale dell’Honduras, è una baraccopoli. I posti di blocco sono presidiati da militari giovanissimi che giocano alla guerra, con mitra più grandi di loro. A Danly, 50 km dal confine nicaraguense, la presenza dei marines USA rende l’atmosfera come ingessata. In albergo l’incontro con Nick, un ragazzo inglese che viaggia in jeep dall’Alaska alla Terra del Fuoco, rallegra la serata, fitta di racconti ed esperienze.

La frontiera con l’Honduras è un via vai confuso, poi più in là tutto torna normale. Strano, perché siamo in Nicaragua, un paese martoriato per anni dalla guerra civile. L’avvento dei sandinisti negli anni 80 aveva portato a un radicale cambiamento sociale: presidi sanitari, scuole e ritrovi pubblici si incontrano in qualsiasi pueblo, una nota stonata di fronte agli interessi delle multinazionali soprattutto statunitensi, che qui svolgono mille attività. La guerra civile protrattasi per anni ha indebolito i sottili e speranzosi sogni di riscatto di questo popolo. Oltre il ponte, il Costarica: altro mondo, un paese socialmente stabile, una polizia smilitarizzata. Per due giorni le moto restano in garage, ci concediamo un po’ di mare e Puntarenas, sul Pacifico. Poi decidiamo di salire sino al vulcano Iratzu, 3453 metri, uno dei tanti del Costarica: ancora sotto la pioggia passiamo la Moet, il punto più alto della Panamericana. Qui cadono 6000 mm di pioggia all’anno e si vede: la strada è una pista da cross, il che ci induce a proseguire, in fuoristrada, lungo la costa.

Il funzionario non è molto convinto di avere tre italiani davanti, oltretutto in moto: scruta il passaporto, poi sussurra un ‘bienvenidos esto es lo stato de Panama’, dove tutto è surrogato a stelle e strisce, a partire dalla moneta, che ufficialmente è il Balboa, ma che è stato sostituito dal dollaro. Fast food, immensi supermercati e loro, gli yankee, i veri padroni: per fortuna un ristorantino stile Italy ci fa sentire meno stranieri. Panama è famosa per il suo canale in servizio dal 1917, una costruzione faraonica ma nello stesso tempo semplice nel funzionamento. C’è l’amarezza di non poter passare né per mare né per via aerea in Colombia. Con una punta di sconforto guardiamo le moto mentre chiudiamo le casse pronte per essere rispedite in Italia. E ci rendiamo conto che senza le moto questa avventura non sarebbe stata cosi unica.

Tratto da Tuttomoto, testo di Giampiero Pagliochini